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Orfeo.
Ormai, mi sono ridotto a narrare le molte e stravaganti avventure che costellano i miei giorni ai soli più intimi fra gli amici, anche perché, a dire il vero, questi eventi appaiono incredibili persino a me che, pure, mi ritrovo a viverli in prima persona. Di primo acchito, sarei propenso ad orientarmi nella deduzione d’un mio stato allucinatorio pressoché permanente, ma un collegio di illustri neurologi e di psichiatri, consultato nel merito, ha concluso che si tratti soltanto di un bizzarro eccesso di fantasia, assolutamente innocuo.
Tant’è … ad esempio, questa Estate mi ritrovavo a passeggiare, poco dopo il tramonto, per una stradetta quasi solitaria, contornata da frondosi giardini. Non sapevo davvero cosa fare in quella serata assai afosa e passeggiavo, così, senza una precisa meta, pensando ai miei casi ed a quella noia che, tanto grevemente, aveva oppresso lo scorrere di quella mia giornata.
Un’improvvisa folatina di vento mi recò all’orecchio l’eco, remotamente torpido, d’una musica indistinta; questa mi pareva giungere da un punto imprecisato, posto verso la fine della strada, che si andava a perdere nel buio, dipanandosi fra le campagne addormentate. Al che, seguendo lo stimolo, davvero insano, d’una mia curiosità lievemente morbosa, mi avviai alla volta della probabile fonte di quel suono appena percepito.
Lasciatami alle spalle la malinconica luce dell’ultimo lampione, man mano che andavo ad addentrarmi nell’ombra, avvertivo farsi sempre più nitida la melodia d’una garbatissima voce tenorile, che si accompagnava agli accordi d’un imprecisato strumento. Si trattava di un canto malinconico che, a tratti, giungeva ad un acme struggente, per poi risolversi, poco a poco, scindendosi nel delicato sussurro di dolcissime melodie dalla rara purezza eufonica.
La strada era finalmente terminata alle soglie di un vasto parco che, da ogni lato, avvolgeva un’antica magione abbandonata. L’alto cancello d’ingresso, arrugginito, era semi aperto e la situazione – mi capitò di considerare – poteva anche rivelarsi rischiosa: a cosa mai mi sarei potuto trovare innanzi? Ma, allo stesso tempo, mi sentivo pervadere da una vera e propria frenesia di giungere a conoscere la fonte di una melodia così particolare e, a scanso di equivoci, prima d’avventurarmi nell’ignoto, pensai bene di nascondere in un cespuglio lì vicino l’orologio e la gran parte del contante racchiuso nel mio portafogli (qualcosa, per gli eventuali ladri, bisognava pur lasciarlo), insieme alla penna stilografica d’oro ed al libretto degli assegni.
Guidato dalla luce opalescente dei raggi della luna piena, mi addentrai per un tortuoso vialetto ingombro di arborescenze spontanee e, dopo una svolta improvvisa, quasi d’incanto, giunsi ad una radura al cui centro, muta e quasi spettrale sotto i riflessi del cielo notturno, si ergeva una bianca fontana marmorea. Su di uno stallo muschioso poco lontano seguitava a cantare uno strano “aedo”, accompagnandosi con una piccola arpa, a tratti guizzante di riflessi dorati; era rivestito da un lungo abito, guarnito di una stola bianca dai risvolti purpurei.
«Ci siamo – dissi fra me e me – l’individuo che mi trovo di fronte è sicuramente l’ennesima vittima d’un colpo di caldo; si deve essere impadronito del costume di scena di qualche comparsa d’un’opera d’ambientazione classica e, adesso, ritenendosi chissà quale personaggio dell’antichità, se n’è venuto in questo luogo desolato, ad offrire una pratica esplicazione al prodotto del suo stato di obnubilamento mentale. Bella trovata davvero l’apertura dei manicomi ed ancora più intelligente è stata la pensata di venirmi a mettere da solo in una simile situazione!».
Stavo già per volgere, insalutato ospite, i miei passi alla volta dell’uscita, in cerca di salvezza, allorquando il matto, cessando le sue melodiose evoluzioni vocali, prese ad incamminarsi verso di me. «Sono proprio rovinato!» mi venne da considerare e, facendo buon viso a cattiva sorte, mi rivolsi a lui sorridendo: «Maestro, perdonatemi se l’indiscrezione mi ha spinto a giungere a turbare le vostre melodie; il canto era così dolce e suggestivo che non mi sono potuto raffrenare. La sua onda armonica (ed affermavo il vero) mi ha comunicato la sensazione di sentir scaturire, dalle profondità della terra, il flusso d’un fresco ruscello dalla primigenia purezza; mi ritengo un discreto conoscitore della musica, ma credo di non sbagliarmi, affermando che un genere di composizione come il vostro non avevo mai avuto l’occasione di poterlo apprezzare. Mi permetto di protestarmi letteralmente ammaliato dalle vostre note!».
L’individuo distava ora da me lo spazio di pochi passi e lo potevo quindi scorgere distintamente: aveva l’apparenza di un uomo che avesse da poco oltrepassato la quarantina, i lineamenti del viso si presentavano con una regolarità quasi innaturale, mentre gli occhi esprimevano una tristezza profondissima ed accorata, nel contempo, emanando una singolare sorta di magnetismo, che soggiogava, pur senza giungere ad incutere alcuna forma di timore. Mi rivolse la parola, con accento impercettibilmente straniero: «La ringrazio, era da molto tempo che nessuno aveva più ammirato la mia melodia, ma, mi dica, ne ha compreso il senso e le parole?».
A mia volta, gli risposi: «Le espressioni da lei usate mi sono sembrate appartenere a qualche lingua morta, la cui comprensione si è perduta nel tempo, dietro di me, insieme agli anni del liceo.». Al che, egli continuò: «Cantavo la tragedia del vivere di ogni uomo. Anch’io, in un tempo remoto, rimasi vittima delle illusioni del vivere, poiché ingenuamente ritenevo che la mia arte valesse a pormi al riparo dagli insulti dell’esistenza, dal momento che nemmeno le sirene erano riuscite ad ammaliarmi con il loro canto adescatore, ma furono bensì le melodie che io creavo a ridurle a tacere sconfitte.
Ma, ahimè, m’innamorai di una donna ed ella mi fu rapita dalla Morte; tentai ogni cosa per poterla riavere e, per lei, varcando persino le sponde dell'Averno, misi a repentaglio ogni fibra del mio essere, tuttavia, il riflesso della sua stessa inanità le fu fatale e dovette ritornarsene all'Ade, mentre la mia fedeltà al suo ricordo, alla fine, si risolse nella causa medesima della mia perdizione terrena. Senza di lei ogni cosa m’appariva misera e disadorna, non potevo più gioire della luce del sole, del murmure scorrere delle fonti, dell’ombra rinfrescante e discreta delle selve. Senza di lei, la mia stessa esistenza si trascinava nelle apparenze d’un simulacro, privato persino della minima speranza in una scintilla di luce redentrice, mentre ogni cosa vedessi sembrava sussurrarmi mestamente all'orecchio un echeggiar sconsolato del suo ricordo perduto. Neppure l’arte che gli Dei mi avevano infuso riusciva a donarmi il minimo conforto.
Fu così che, senza nemmeno avvedermene, mi avviai nella direzione della mia perdizione terrena: le altre donne non parevano potersi dar requie, per il fatto che io mi serbassi assolutamente fedele al ricordo della sola che avessi mai amato e, nella loro stolidezza, presero ad odiarmi sempre più, sinché, un giorno, una torma di costoro, resa ebbra da Dioniso e bramosa d’una cieca vendetta, mi aggredì presso una radura, che mi era particolarmente cara, per il grato ricordo che mi offriva degli attimi di gioia che vi avevo trascorso, tenendo per mano il mio amore scomparso.
Queste baccanti tentarono di farmi violenza, ma io, disprezzandole, mi limitai a sdegnarle, chiudendo i miei occhi e rifiutando di profferire alcun motto al loro indirizzo; fu così che esse, impotentemente infuriate, mi fecero a brani, nella foga insensata di un’empia rivalsa.
Il mio spirito, sciolto dai lacci terreni, raggiunse il mondo dei morti e, finalmente, fra le innumerevoli ombre, scorsi quella della sola donna che avessi mai amato. Ma, non appena l’ebbi raggiunta, rivolgendosi a me con tono distante, ella così m’ebbe a dire: «Ahimè, troppo tardi giungesti a questa sponda! A lungo languii, sospirando per te nella trepidante attesa; mi spiace, ma ora è davvero troppo tardi.» e, dopo aver pronunciato queste parole, si svincolò agile dalla stretta della mia mano che aveva preso la sua, per potersi così ritornare a congiungere con un’altra anima, che l’attendeva lì presso. E tutto questo me lo rivelò lei, proprio lei, quella donna per il cui ricordo avevo volontariamente rinunziato alla luce del sole! Ora, come vede, altro non mi rimane, se non cantare solitario, piangendo per quello che è stato, per quella dolce illusione che apparì così bella e che, poi, m’ha perduto. ».
La lunga narrazione si era dipanata con un accento sofferto e pacato e mi stupì la constatazione di come il fluire di quelle parole si fosse snodato nell’aria, con l’intonazione melodica di un canto sommesso e quasi impalpabile.
Così mi parlò e, d’un tratto, la figura dell’ “aedo” fu come circonfusa da un chiarore luminescente e, quindi, poco a poco, prese a dissolversi nel buio. Attonito ed ammaliato insieme, ebbi finalmente a chiedergli: «Chi siete Maestro?». Le sue labbra si contrassero in un mesto sorriso e, un attimo appena prima di svanire nell’ombra, mi rispose con un lieve bisbiglio: «Orfeo.».
Ero rimasto solo, tutto era scomparso fra le caligini della notte, ma la sensazione impressami nell’animo da quella melodia incomparabile ancora per molto mi pervase, tant’è che, all’uscita, dimenticai persino di riappropriarmi dei miei averi nascosti nel cespuglio (per pura fortuna, il giorno seguente, li ritrovai intatti là dove li avevo lasciati).
Ebbene, vi ho raccontato proprio tutto, ma, mi raccomando, niente paura; lo dicono anche i medici che si tratta soltanto di un bizzarro eccesso di fantasia e, dunque, non abbiatevene particolarmente a male, se questo mio racconto vi sia potuto suonare, a tratti, come scarsamente veritiero: la fantasia non danneggia mai nessuno! Almeno, che io sappia …